Le strategie delle PMI di diagnostica in vitro del XXI secolo

Le strategie delle PMI di diagnostica in vitro del XXI secolo

La piccola e media impresa che oggi intenda operare nel segmento della diagnostica in vitro deve ragionare su un diverso modello di business rispetto all’impresa tradizionale, fondata secondo le logiche del secolo scorso: un modello di business che le consenta di avere, a parità di output e di efficienza, una minor necessità di personale e di capitale.

Il motivo consiste nel fatto che si sta verificando un’economia senza frizioni, un nuovo mondo in cui il lavoro, le informazioni, i capitali si muovono facilmente, a poco prezzo e quasi istantaneamente. Le società stanno dando vita a nuove relazioni, più fluide, con i clienti, i dipendenti e gli azionisti. Si sta anche ripensando al ruolo del capitale (cosi come è inteso tradizionalmente), trovandosi nuove vie in cui le imprese possono prosperare con sempre meno risorse finanziarie.

La creazione di valore avviene in modo nuovo, dato che la R&D e il marketing vengono reinventati. Si stanno anche sviluppando nuovi sistemi di misurazione delle performance, poiché quelli tradizionali non sono più in grado di catturare ciò che conta.

Molte società, che realizzano la maggior parte dei loro ricavi vendendo beni fisici, hanno pressoché tutti i loro prodotti che sono fatti da altri, essendo in grado di coordinare ampie supply chain e utilizzando l’accesso ai fattori, piuttosto che la loro proprietà, in modo da poter aumentare o diminuire la capacità produttiva a secondo delle variazioni della domanda. Ciò consente alle PMI che non abbiano capitali significativi di competere con chi li ha, alla pari.

Nella mia precedente esperienza di CEO di una importante società produttrice di kit di diagnostica in vitro, ho dovuto scontrarmi con impostazioni dogmatiche e aprioristiche, con veri e propri “miti”, che confliggevano spesso con le buone regole di management.

Giusto per fare degli esempi, vi era il “mito” dell’elevato livello dell’integrazione verticale, il dogma del controllo dell’intera filiera produttiva, l’orgoglio di produrre “in casa” le materie prime da utilizzarsi poi nella preparazione del prodotto finito, e un certo snobismo volto a disprezzare come “bottegaio” chi si riforniva all’esterno. Ora, in un mercato super-specializzato, parlare di integrazione verticale ha senso solo se ciò fornisce una esclusiva di mercato – “solo noi siamo in grado di produrre questi materiali, grazie ad un know-how proprietario” – oppure se ciò determina un vantaggio competitivo significativo. Vantaggio che può consistere o in una maggior qualità del prodotto finito, a parità di profitto, o in un maggior profitto, a parità di qualità del prodotto finito.

Ma se produrre in casa la materia prima non mi garantisce né esclusive, né vantaggi competitivi di tipo qualitativo o economico, spesso e volentieri questa sovrastruttura produttiva costituirà un costo aggiuntivo che determinerà diseconomie più o meno palesi. Molto meglio sarebbe esternalizzare questa fase del processo produttivo, utilizzando fornitori che, per aver una più spiccata specializzazione e per trattare maggiori volumi, sono in grado di fornirci un prodotto di miglior qualità e ad un prezzo inferiore. Semmai, l’innovazione manageriale sta, oltre che nell’outsourcing (controllato dal punto di vista qualitativo) di processi non essenziali, nel trasformare quei rapporti tra fornitori strategici ed azienda da una mera relazione mercantile – “io ti vendo delle materie prime e tu mi paghi la fattura” – in un rapporto sinergico, di collaborazione su specifici progetti in cui, mettendo a fattor comune le reciproche conoscenze, si riesca a generare innovazione sul piano tecnologico, di prodotto e di processo, e nuove opportunità di mercato.

Un altro mito è costituito dalla “mega-fabbrica”: il grande investimento immobiliare per unificare più strutture produttive che, tra la rincorsa dell’evoluzione tecnologica e le velleità estetiche più o meno giustificate di molti capitani d’industria, richiede l’utilizzo di capitali importanti, spesso presi a debito.

Si tratta di un’allocazione di risorse che difficilmente produrrà ritorni incrementali rispetto allo status quo, per cui i flussi di cassa a servizio del debito andranno presi da altre fonti, e sottratti da altri più remunerativi impieghi, penalizzando la creazione di valore. Purtroppo, il concetto di profitto economico, di Economic Value Added (da cui l’acronimo EVA), nella migliore delle ipotesi rimane sui libri di corporate finance piuttosto che trovare applicazione concreta nei piani aziendali; ma nella maggior parte dei casi, ancora oggi, nelle PMI, se si parla di EVA, molti ancora pensano che ci si riferisca alla moglie di Adamo.

Questi miti, spesso, portano a dare troppa importanza all’impiego di capitale finanziario e alla sua allocazione non sempre ottimale, come si è visto, e trascurano il capitale intellettuale (come software, brevetti, diritti di autore, marchi, know-how), il capitale di clientela (nella forma di relazioni con i compratori) e, specialmente, il capitale umano, che nella diagnostica in vitro, ben più che in altri settori, è fondamentale.

Per far girare adeguatamente il motore di una PMI nel settore dei diagnostici, occorre quella “energia intellettuale” che solo un team di persone altamente preparate e motivate è in grado di fornire. Ma per attirare capitale umano occorre un approccio al business motivante, meccanismi di remunerazione molto incentivanti e direttamente basati sulle performance di ognuno (“ti premio per quello che fai, per i risultati che saprai raggiungere”), e una location appropriata dell’impresa.

Troppo spesso, in Italia, il paese dei mille campanili, il provincialismo continua a dettare legge. Pensare di attirare capitale umano e trasferirlo in luoghi remoti, quand’anche ameni per il turismo ma lontani dalla rete infrastrutturale e dai maggiori poli universitari, è pia illusione. È l’impresa che deve collocarsi nei punti nevralgici del paese, magari con strutture snelle e decentrate, dove risiede il maggior bacino di capitale umano, per attrarne le migliori competenze. Ciò postula un modello di impresa che funzioni come azienda multilocation, ben coordinate tra di loro. Il monolite della “mega-fabbrica” non funziona più, anche perché è una grave errore pensare che le migliori competenze siano disposte a trasferirsi per lavorare in una fabbrica posta, come direbbero efficacemente gli inglesi, in the middle of nowhere.